
E’ il cruccio di tutte le forze politiche, vecchie e nuove, quando si parla di politiche sociali e di come sono cambiate nei paesi occidentali, e in particolare modo in Italia. Le politiche sociali sono l’insieme di interventi che vengono sviluppati per protegge: individui, famiglie e collettività, che vengono sviluppati da tutta una seria di rischi specifici che in genere vengono definiti rischi speciali. Su queste basi il Partito Democratico, legato nel limbo delle lobby, ha generato flussi corposi di rischi di povertà e disoccupazione; questo fenomeno, dettato dall’inclusione della manovra finanziaria 2015 che ha stabilito il gap sociale in Europa, ha comportato il concetto di rischio come sia cambiato nel tempo e le ragioni per cui le politiche sociali sono cambiate.
In maniera crescente negli ultimi decenni, le politiche sociali cambiano e si iniziano a incrinare due grandi pilastri fondamentali del welfare in una condizione socioeconomica molto differente. In fatti siamo in una condizione socioeconomica in cui abbiamo meno risorse, perché l’economia cresce di meno e il mercato del lavoro che stenta ad assicurare lavori a vita stabili a tempo indeterminato, che tra l’altro diventata domanda sociale in costante aumento. Oggi, inutile negare, paradossalmente il welfare si trova ad avere meno risorse in termini relativi che in passato.
Ma quali possono essere le soluzioni che potrebbe allineare un sistema di welfare occidentale? Una soluzione, difficile da definire, chiaramente in un epoca di austerità come quella attuale, non solo della crisi in termini di austerità usata molto per studiare il welfare per indicare quello che succede negli ultimi vent’anni, in un modello, in un mondo di austerità più che pensare ad una semplice espansione dei programmi del welfare dove mancano materialmente i fondi per farlo, c’è quello che in letteratura viene definita ricalibratura. Cioè: se noi stiamo assistendo ad un cambiamento dei bisogni delle persone, e la coperta finanziaria in un certo senso è relativamente corta, forse occorre limitare gli investimenti che stiamo facendo in alcune aree tradizionali del welfare, e andare ad investire in aree che sono totalmente scoperte.
Ad esempio: nell’economia degli anni sessanta quando si parlava di occupati, il riferimento era indirizzato a maschi, giovani ed adulti. Il mercato del lavoro italiano fino agli anni settanta, ottanta, e per certi versi, ahimè, ancora in parte oggi, era un mercato del lavoro pensato per gli uomini. Fortunatamente negli ultimi vent’anni è aumentata fortemente la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro; ma la partecipazione del mercato del lavoro da parte delle donne significa, ad esempio, la necessità di tutta una serie di politiche che facilitano quello che di solito in gergo si chiama conciliazione: cioè, se uno ha genitori anziani o se una persona fa coppia con figli piccoli, fin tanto lavorava uno dei due membri della coppia, in genere il maschio, è relativamente facile pensare che l’altra persona, la donna, stesse a casa a curare, è chiaro che se abbiamo famiglie crescentemente bi-lavoro, diventa fondamentale che ci siano dei servizi di supporto.
Un altro aspetto interessante che potrebbe entrare fortemente nel dibattimento europarlamentare, è il concetto di welfare come forma di investimento sociale. Praticamente il welfare non deve essere solo qualcosa che deve proteggere i cittadini da una serie di rischi: la malattia, diventare anziani e non poter lavorare, ect ect, deve essere oggetto che aiuti gli individui a stare nella società e farcela con le loro gambe: sostanzialmente politiche attive del lavoro. In questo quadro di proposta, purtroppo l’Italia si colloca nel bel mezzo del retracement. Infatti se guardiamo le politiche, le scelte che sono state fatte in Italia dai governi di centrodestra e di centrosinistra negli ultimi vent’anni, sono scelte in cui abbiamo sempre tagliato in alcuni settori del welfare tradizionali; ad esempio il settore delle pensioni i primi anni novanta con Amato e Ciampi fino all’ultima riforma sotto il governo Monti, la linea continua delle riforme stato sostanzialmente cercare di contenere la spesa pensionistica e rallentarla. C’è un problema che, oltre a quello che è stato fatto nelle pensioni, è mancato il “secondo tempo” dell’azione di polisi. Cioè con una parte dei risparmi si poteva investire sui servizi all’infanzia, sui servizi delle politiche attive del mercato del lavoro, politiche di protezione, politiche di investimento nella scuola, prevenzione in sanità, praticamente tutto quello che è investimento sociale.
L’Italia, in questo senso, si è fermata al “primo tempo”: praticamente un film ripetuto e ripetuto più volte. Per cui sono state fatte riforme negli anni novanta e in parte negli anni duemila nell’ottica di diminuire la generosità una serie di sistemi, ma non si è avuta la capacità e tanto meno la forza di investire almeno una parte di questi risparmi o risorse, per andare a sviluppare buchi. E’ un dato certo che come paese restiamo fanalino di coda per quanto riguarda le politiche per l’infanzia, per gli anziani, siamo il paese europeo che spende dimeno per le politiche contro la povertà, politiche abitative praticamente sono inesistenti, politiche attive per il lavoro sono scarsamente presenti. In conclusione Questo ventennio di politica tutta italiana è servito esclusivamente per cercare di diminuire la spesa in alcune voci tradizionali del welfare, senza che veri e robusti tentativi e programmi si siano realizzati verso i nuovi rischi, verso le nuove necessità, differentemente d’altri paesi europei che si sono programmati in tal senso.