
Molte sono le bugie raccontate in questo paio di mesi di stallo post elettorale. Molte sono state anche le omissioni nelle ricostruzioni dei possibili scenari. Qualche riga che puntualizzi nuovamente l’ovvio può essere utile.
Primo. Non è vero, come sostenuto recentemente anche da Orfini, che la legge elettorale che precedeva il Rosatellum – nota alle cronache come Italicum – sia stata bocciata dal voto referendario del 4 dicembre 2016 o, comunque, non abbia passato il vaglio della Consulta perché pensata in relazione al nuovo assetto costituzionale vagheggiato dai genitori costituenti Matteo Renzi e Maria Elena Boschi. L’Italicum è stato bocciato dalla Corte sia perché il ballottaggio avrebbe attribuito un premio di maggioranza a un partito anche in caso di consenso elettorale molto limitato al primo turno, sia perché il sistema delle pluricandidature avrebbe permesso di pianificare i candidati effettivamente eletti. Non a caso, la Corte Costituzionale – con abile sentenza manipolativa – ha creato una legge, immediatamente applicabile, in cui il premio di maggioranza sarebbe sì scattato, ma soltanto alla lista che avesse raccolto il 40% dei consensi, mentre in caso di elezione in più collegi del medesimo candidato, il collegio di nomina sarebbe stato scelto non dal candidato stesso, ma per estrazione.
Secondo. Non è vero che l’attuale stallo deriva direttamente dalla legge elettorale utilizzata (cioè il Rosatellum). Stando alle simulazioni del sito YouTrend – confermate, per quel che vale, dal vostro povero cronista – in caso di utilizzo del sistema tedesco (proporzionale con sbarramento al 5%), “per formare una maggioranza ci sarebbe stato bisogno di un accordo tra il Movimento 5 stelle e un altro partito, oppure tra tutti i partiti ad esclusione del Movimento 5 stelle”. L’applicazione del sistema spagnolo – anch’esso proporzionale ed anch’esso proposto in passato dalle nostre forze politiche, come il tedesco – non avrebbe condotto a risultati apprezzabilmente diversi. Poniamo invece che si fosse optato per un ritorno al Mattarellum (simile al Rosatellum ma con una maggiore quota di maggioritario uninominale): il centrodestra avrebbe sfiorato la vittoria, che sarebbe però mancata per una decina di voti in entrambe le Camere. Al Senato il centrodestra non avrebbe avuto la maggioranza neppure in caso di uninominale secco integrale. Secondo YouTrend neppure un sistema a doppio turno alla francese – cioè il peggior sistema elettorale esistente, in cui glie elettori sono portati naturalmente più schierarsi “contro”, piuttosto che “per”, fino a ritrovarsi Presidente della Repubblica uno come Macron – avrebbe prodotto una maggioranza chiara.
Terzo. Non ha alcun senso la posizione di chi, nel PD, dice che gli elettori hanno messo quel partito “all’opposizione”. In un sistema per la maggior parte proporzionale, nel quadro di una Repubblica parlamentare e non presidenziale (nonostante le ricorrenti tentazioni di molti se non tutti i partiti), pensare che gli elettori abbiano espresso, col proprio voto, un primo ministro, o una maggioranza preconfezionata, denota un inenarrabile analfabetismo istituzionale o, peggio, una dose massiccia di malafede.
Quarto. Risulta infondata tesi di Di Maio secondo cui, in mancanza di un accordo fra Movimento 5 stelle e Lega da un lato, o fra Movimento 5 stelle e Partito Democratico dall’altro, in mancanza di altre maggioranze stabili sarebbe obbligo del Presidente della Repubblica sciogliere le Camere. Il potere di scioglimento è infatti una prerogativa del Presidente della Repubblica, sia pure d’intesa col Presidente del Consiglio (Mortati, Paladin), che ha ampi margini di discrezionalità purché entro l’alveo del sistema democratico repubblicano. Il risultato pratico è che, teoricamente, le consultazioni si potrebbero prolungare anche per mesi e, nel frattempo, resterebbe in carica – sia pure per il “disbrigo degli affari correnti” (secondo una comune prassi costituzionale), che pure è concetto assai ampio – il governo Gentiloni. Si tratterebbe delle realizzazione pratica della “nuova normalità europea“, per dirla con Pier Carlo Padoan, quella che permette a un Paese di fare a meno per mesi e mesi di un esecutivo – soprattutto se inviso all’establishment europeo – tanto alla fin fine è l’Unione Europea (o la Banca Centrale) che fa le scelte importanti, soprattutto quelle di politica monetaria. Per quanto attiene la politica estera, sono anni che, in ogni caso, l’Italia non l’ha più.
Tuttavia, un’uscita da questo impasse esiste e l’ha individuata Matteo Salvini, che chiederà al Presidente della Repubblica di essere incaricato per cercare in Parlamento i voti che permettano di sostenere un suo governo (del centrodestra, di parte del Movimento 5 stelle, escluso il solo PD), incentrato su pochi punti: testo unico sui migranti, Flat Tax, sostegno al reddito, abolizione della Fornero. Il punto fondamentale sta nel fatto che, anche nel caso in cui questo governo non ottenesse la fiducia, resterebbe comunque in carica – al posto dell’attuale – fino a un nuovo incarico, o fino alle prossime elezioni, tra l’altro senza neppure particolari vincoli parlamentari. E la dottrina mostra come il governo che non ottiene la fiducia non ha poteri apprezzabilmente diversi dal governo che si deve ancora presentare alle Camere, o a quello che si è dimesso o è stato sfiduciato. Molto probabilmente Sergio Mattarella non abboccherà: i giornaloni vicini al Quirinale parlano infatti di pre-incarico, oppure di una previa rassicurazione, da parte delle diverse forze politiche, in ordine al sostegno ad un governo a tempo del leader leghista.
Ma vale la pena tentare.