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Contr’Appunti – Lo Stato sociale, in appalto

| 31 Marzo 2018 | ATTUALITÀ, ECONOMIA, POLITICA

Vi è stato chi, non molto tempo addietro, ha affrontato da un punto di vista teoretico quella particolare dottrina politica – portata avanti in Italia, nell’ultimo quinquennio, dal PD – icasticamente definita socialismo dei ricchi. Qui, più modestamente, se ne vuole riportare una clamorosa applicazione pratica.

Le fondazioni bancarie (o meglio alcune delle fondazioni bancarie), ancorché uscite non indenni da dieci anni di crisi finanziaria, sono ancora tra i soggetti meglio patrimonializzati del Paese; dunque, siccome hanno, in armonia con il detto evangelico viene loro dato ancora di più. E chi se ne importa, in questo caso, delle cottarelliane coperture.

Alle fondazioni bancarie è da sempre imposto di destinare una piccola parte del loro utile a favore del sistema delle associazioni di volontariato: dal 2018, grazie al Codice del Terzo Settore, “per le somme che… vengono versate…, è [però loro] annualmente riconosciuto un credito d’imposta pari al 100% dei versamenti effettuati, fino ad un massimo di 15 milioni di Euro per l’anno 2018 e di 10 milioni di Euro per gli anni successivi…”. Tra 2016 e 2018 le fondazioni si sono altresì impegnate a sostenere, per circa 120 milioni di Euro all’anno, il “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile”; in cambio è attribuito loro un credito d’imposta pari al 75% dei loro versamenti, fino a un massimo di 100 milioni di Euro per ciascun anno. Infine, la legge di bilancio 2018 prevede un credito d’imposta per la realizzazione di sistemi di welfare locale: il beneficio sarà pari al 65% delle erogazioni destinate a finanziare progetti di contrasto alla povertà e al disagio. Totale, 300 milioni di risparmi annui, mica cotiche.

Ora, qui il punto non è tanto prevedere sgravi fiscali a favore di soggetti che svolgono (spesso assai meritoriamente) attività di pubblico interesse ad alto valore aggiunto sociale, qui si tratta di notare come con queste norme il legislatore (meglio: i governi del PD, trattandosi di disposizioni contenute in decreti legislativi, o in leggi di bilancio imposte dall’esecutivo a colpi di fiducia) abbia fatto un passo ulteriore verso la definitiva privatizzazione dello Stato sociale in Italia.

Il primitivo disegno costituzionale pensava alla Repubblica come garante fondamentale, se non addirittura unica, dei diritti sociali dei cittadini e del loro benessere (del welfare State); poi – con l’oscena riforma del Titolo V avvenuta nel 2001, al termine di un quinquennio di governi di centrosinistra, prima di Prodi (impegnato a distruggere il sistema fiscale italiano, a partire dall’introduzione dell’Irap) poi di D’Alema (impegnato a distruggere la Bosnia) e infine di Amato (che si è dedicato a distruggere la Carta costituzionale) – entra in scena il nuovo art. 118, c . 3, ai sensi del quale “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (orizzontale).

A inizio anni Duemila l’Italia è stabilmente parte dell’Unione Economica e Monetaria, cioè del sistema dell’Euro, i cui vincoli iniziano a porre pressione sulle possibilità della finanza pubblica (il Paese è in avanzo primario dal 1996, cioè proprio dall’anno del primo successo di Prodi); lo Stato – sin dal precedente “ribaltone” al governo Berlusconi – ha iniziato un arretramento significativo nei principali ambiti di intervento a sostegno dei cittadini (la riforma pensionistica di Dini e del 1995); “assistenza e beneficenza” (come si sarebbe detto una volta) vengono demandati, per quanto possibile, all’associazionismo privato. La toppa – teorica – è di gran lunga peggiore del buco: il concetto di sussidiarietà rimanda all’idea che alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedano meglio i privati cittadini (sia come singoli, sia come associati) dei pubblici poteri che, al massimo, intervengono in funzione “sussidiaria”, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione.

Ora, siamo allo step successivo: questi magnifici “privati cittadini” (che, traslando dalla mitologia alla realtà, sono invero soggetti giuridici ben individuabili – fondazioni bancarie, Caritas, certe cooperative sociali – con interessi e riferimenti politici e culturali altrettanto ben individuabili) fanno così bene quel lavoro che i nostri Costituenti avevano invero commesso allo Stato che quest’ultimo non solo ha cessato di svolgerlo, ma addirittura paga chi lo fa per lui. Con quale vantaggio per l’erario e per la qualità del servizio, ognuno può di certo immaginarlo.

Ma non finisce qui. Non solo il welfare è diventato a gestione privata. Non solo il Governo, di fatto, ha iniziato a pagare questi gestori. Ora addirittura si priva volontariamente di risorse proprie, a favore di questi stessi soggetti (richiedendo poi qualcosa in cambio per sé, ovviamente).

Un esempio preclaro è la recente trovata del duo Costamagna (ex Goldman Sachs) – Padoan, meritoriamente individuata e commentata da Giovanni Pons. Il ministro dell’economia (recentemente rieletto a Siena, nonostante abbia gestito talmente bene il caso Montepaschi da richiedere l’intervento pubblico con connesso burden sharing) ha infatti incrementato di circa lo 0,2% il tasso di remunerazione del conto corrente di tesoreria utilizzato dallo Stato, in cui stazionano una media di 160 miliardi di Euro derivanti dalla gestione del risparmio postale: un guadagno extra per Cassa Depositi e Prestiti di più di 200 milioni di Euro, il 16% dei quali (più di 30 milioni) appannaggio proprio di alcune delle maggiori fondazioni bancarie, socie di CDP.

In cambio, CDP – onde evitare perdite enormi al sistema bancario in generale ed a Intesa e Unicredit in particolare – ha investito e perso 750 milioni di Euro in Atlante per il salvataggio della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Le quali, ripulite, sono state poi regalate, con un discreto numero di miliardi di Euro in aggiunta, proprio a Intesa (i cui soci principali sono, per l’appunto, Fondazione Cariplo e Compagnia di San Paolo). Come per dire che, anche tra le fondazioni bancarie, ci sono figli e figliastri.

TAG: Costituzione, Fondazioni bancarie, Sussidiarietà
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