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Se ne vanno

| 2 Novembre 2017 | POLITICA

Un’intera generazione di postcomunisti sta uscendo dal PD, perché non si riconosce nel partito che aveva concorso a fondare. Non è più la loro ditta,
il luogo in cui erano custodite le reliquie di un’ideologia ottocentesca che mimetizzavano sotto i costumi carnascialeschi del politicamente corretto, facendosi schermo di personaggi di comodo, come Prodi, assoldati per diluire l’identità senza doverne temere la concorrenza.

Se ne vanno perché vogliono rifare quello che loro chiamano impropriamente centrosinistra, mentre è soltanto la rivisitazione di un compromesso storico
in salsa gramsciana, con gli ex PCI ben saldi nella sala comando e gli altri manovrati come i pupi del teatro siciliano.
E tutti gli illiberali, i giustizialisti, i manutengoli dei poteri forti gli sbavano dietro, sognando la grande alleanza col popolo minuto, quello che inneggia al trionfo della mediocrità e guarda con sospetto alla modernizzazione del Paese, che dovrebbe ridare un ruolo al merito, alla cultura, ad un’Italia con respiro europeo e competitiva sullo scenario globale.

Ieri ha tolto il disturbo il magistrato Grasso, oggi è il turno di Bassolino, domani chissà. E, se riprende fiato una destra sgangherata che ci ha già spinto sull’orlo del precipizio, dobbiamo farcene una ragione e rassegnarci a guardare il futuro nello specchietto retrovisore.

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