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Nell’interesse della finanza

| 28 Ottobre 2017 | ATTUALITÀ, POLITICA

In questi giorni, certo per un caso fortuito, sono state emesse due sentenze molto importanti, meglio: illuminanti.

Una, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui gli interessi – divenuti usurari – richiesti dalle banche su alcuni mutui (il più delle volte piuttosto risalenti nel tempo e a tasso fisso) devono essere sempre e comunque pagati, nonostante che l’art. 1815, c. 2, c.c., dica esattamente l’opposto. Infatti, secondo i giudici, una lettura combinata della norma civilistica e dell’art. 644, c.p., fa concludere che, perché un interesse possa dirsi usurario a termini di legge, è necessario che lo sia sin dalla sua pattuizione. In pratica, non esiste l’usura sopravvenuta.

Poco importa, d’altronde, che l’eccessiva onerosità sopravvenuta sia un istituto giuridico applicabile trasversalmente a tutti i contratti di durata (art. 1467, c.c.): secondo costante giurisprudenza ai mutui il disposto non si applica, essendo universalmente noto che i debitori – tutti luminari del funzionamento dei mercati finanziari, quando non addirittura avidi speculatori pronti a carpire l’illibata fiducia degli Istituti di credito – sono ben consci di star sottoscrivendo un accordo per alcuni versi aleatorio. Ebbene sì, quando comprate la casetta dei vostri sogni e già sudate freddo per le rate mensili da pagare, in realtà state speculando sui tassi di interesse. A volte, addirittura sui tassi di cambio: e se vi rovinate, peggio per voi.

L’altra è della Corte Costituzionale, che ha ritenuto non illegittimo il c.d. “bonus Poletti” (cioè la restituzione solo parziale, secondo fasce di reddito, degli arretrati dovuti ai pensionati a seguito della bocciatura, sempre per incostituzionalità, della perequazione automatica introdotta dalla Legge Fornero). Secondo i giudici delle leggi, infatti, considerando che si tratta di una “nuova e temporanea disciplina”, si apprezza – nel caso di specie – “un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica” (cioè il pareggio di bilancio, in qualche modo costituzionalizzato con la modifica dell’art. 81, Cost., al tempo del Governo Monti).

Una bocciatura sarebbe potuta costare allo Stato circa 30 miliardi di euro“, ci informa con un sospiro di sollievo Rai News: e in una frase del genere c’è tutto il senso di uno Stato che non è più al servizio del cittadino, ma si è reso schiavo di algide regole tecnico-contabili. Con ciò, evidentemente, rendendosi schiavo di chi, quelle regole contabili, può imporle. E uno schiavo, in quanto tale, non ha una volontà propria, perciò non ha neppure patti da rispettare. Sembra il Crepuscolo degli Dei: la brama d’oro è una maledizione che spezza perfino il bastone di Wotan, carico dei patti di cui il dio è custode.

Messe così, una accanto all’altra, le pronunce descrivono meglio di un trattato di economia o di sociologia il mondo in cui viviamo. Un mondo in cui – per dirla in modo molto chiaro – non si possono mettere a repentaglio i profitti del capitale (cioè delle banche e dei grandi fondi che le posseggono) anche se sono intervenute circostanze che hanno cambiato significativamente le carte in tavola, ma si può facilmente fare strame di una norma costituzionale (art. 38, c. 2) e del fondamento primo del diritto in quanto tale (pacta sunt servanda) in difesa del supremo mito dello “Stato coi conti in ordine”.

In fondo, siamo il Paese in cui un politico può permettersi di dire, impunemente, che il debito è come il colesterolo: se serve alle banche, va bene (e non è neppure debito), se serve ai terremotati, purtroppo mancano i soldi.

A marzo si vota.

TAG: Bonus Poletti, Cassazione, Corte Costituzionale, Fornero, Interessi, pensioni, Perequazione, Usura
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