
Lo stereotipo della donna sicula occhi bassi e velo in testa è tramontato da tempo. Quello della donna del mafioso che fa finta di non sapere e di rimanere in disparte, anche. Con l’aumentare degli uomini d’onore in carcere, il potere va alle donne che devono gestire non solo il focolare domestico ma anche la famiglia mafiosa. E’ quello che è accaduto a Gela, in provincia di Caltanissetta, dove tre donne, tutte mogli di uomini d’onore in carcere, gestivano il traffico di stupefacenti ed il racket delle estorsioni. Monia Greco, 40 anni, di Gela, moglie di Nicola Liardo e Maria Teresa Chiaramonte, 44 anni, di Catania, moglie di Salvatore Crisafulli. La terza donna, Dorotea Liardo, di 22, figlia di Nicola, è stata sottoposta all’obbligo di firma.
Il ruolo delle donne di mafia sta assumendo una importanza assai rilevante nella gestione dei traffici delle famiglie mafiose. Le logiche della società mafiosa, patriarcale e maschilista, non hanno finora consentito una trasformazione in senso assoluto, e cioè un’emancipazione vera e propria. Non esiste una vera e propria affiliazione se non marginale nel ruolo di sorelle d’omertà. Questa sorta pesudo-emancipazione è avvenuta giocoforza, considerato che i mariti o i padri sono reclusi per associazione mafiosa. Le donne di mafia rivestono diversi ruoli il primo dei quali è la trasmissione del codice culturale mafioso nell’educazione dei figli. Ha il compito di inculcare nei figli determinati disvalori indicati come “giusti”, in contrasto con i principi diffusi nella società civile. I principali disvalori riguardano l’omertà, la vendetta, il disprezzo dell’autorità pubblica e la differenza di genere.
Riveste dei compiti compromettenti dal punto di vista giudiziario, di carattere secondario, rispetto all’attività svolta dai loro uomini: custodia delle armi, recapito delle ‘mbasciate’ fra i componenti reclusi e quelli in libertà, organizzazione delle collette per sostenere le famiglie degli affiliati reclusi, vigilanza esterna, acquisizione di informazioni, protezione dei latitanti. Eppure, molto spesso, ricoprono il ruolo vero e proprio di boss. Nellla classifica delle «boss in gonnella» più pericolose, troviamo: Anna Maria Licciardi, ex capo dell’omonimo clan camorristico di Secondigliano (Napoli); Rosetta Cutolo, sorella maggiore dei camorristi Raffaele e Pasquale, considerata l’esponente principale della Nuova Camorra Organizzata; Raffaella D’Altiero, detta «a miciona», dopo la morte del marito il boss Nicola Pianese, nel 2006, prese in mano il comando del clan insieme a Fortuna Iovinelli, detta «a masculona» che capeggiò la guerra di camorra a Napoli.
L’Osservatorio sulla camorra ha accertato che i boss in gonnella sono in costante crescita. Droga, prostituzione, usura sono i mercati in cui le donne si fanno valere di più. Fondamentale resta poi il ruolo di raccordo con i capi rinchiusi in carcere: i boss danno ordini dietro le sbarre e loro, mogli, fidanzate, sorelle, si preoccupano di farli eseguire all’esterno. Omicidi, attentati, rapine, pizzo, tutto ad opera delle nuove boss. Al momento non si hanno notizie di donne killer professioniste, ma forse con il passare del tempo, anche questo tabu’ criminale verrà sfatato. Il potere femminile all’interno delle organizzazioni criminali è temporaneo, finchè qualche uomo di famiglia riesce ad uscire dal carcere e a riprendere in mano la direzione del clan. Eppure vi sono donne condannate al 41 bis, cioè al carcere duro per associazione crminale di stampo mafioso. Le quote rosa all’interno della criminalità organizzata si stanno facendo strada, seppur il sistema maschilistico-patrialcare delle mafie non sia mutato per nulla.