Il governo Gentiloni, secondo abitudine ormai consolidata, ha recentemente varato – senza alcuna fanfara – l’ennesima riforma, nel caso di specie quella del Terzo Settore. Altro che gli annunci urbi et orbi di Renzi: ora questa specie di redivivo Padre provinciale (“sopire, troncare… troncare, sopire!”), dopo aver devastato le banche venete e il sistema penale nazionale, aver introdotto una decina di vaccini obbligatori e quasi portato a caso lo ius soli, se ne esce con tre decreti legislativi la cui importanza non va sottovalutata.
Il più significativo, già ribattezzato “Codice del Terzo Settore”, è non soltanto un testo per certi aspetti rivoluzionario soprattutto dal punto di vista fiscale, ma anche una legge la cui valenza simbolica non è, al momento, percepita. Ai sensi dell’art. 2, “è riconosciuto il valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore… e ne è favorito l’apporto originale per il
perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme
di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali”. Ai sensi dell’art. 55, c. 1, invece: “in attuazione dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare, le amministrazioni pubbliche…, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale…, assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento…”. Infine, l’art. 56, c. 1, dispone che “le amministrazioni pubbliche… possono sottoscrivere con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale… convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale, se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”.
Queste tre norme, unitariamente lette, si pongono come un chiaro manifesto di privatizzazione del sociale, soprattutto sanitario, in buona sostanza prevedendo la quanto meno parziale abdicazione, da parte dello Stato, al proprio ruolo di individuazione dei bisogni della collettività, oltre che una possibile (auspicabile?) esternalizzazione dei servizi volti a rispondere ai bisogni medesimi. Con un quid pluris rispetto al passato: l’esternalizzazione non riguarderà solo quei servizi di per sé appetibili per il privato in quanto remunerativi, ma anche quelli con margini inferiori, che potranno essere demandati a soggetti (anche commerciali, come le imprese sociali e le cooperative sociali) cui è permesso un obiettivo abbassamento dei costi grazie il ricorso al lavoro volontario. Magari di ragazzi disoccupati. Magari di immigrati già “gestiti” da qualche scaltrita cooperativa.
A tutto questo si aggiunga che l’ambito di intervento del Terzo Settore è praticamente sconfinato. Vi sono “servizi sociali” nei confronti di disabili e persone soggette a disagio, “interventi e prestazioni sanitarie” e “socio-sanitarie“, “educazione, istruzione e formazione professionale“, “attività culturali di interesse sociale…”, “interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento delle condizioni dell’ambiente…”, “interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio”, “formazione universitaria e post-universitaria“, “ricerca scientifica“, “organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di particolare interesse sociale, incluse attività anche editoriali…”, “organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso”, “formazione extra-scolastica”; “cooperazione allo sviluppo“, “servizi finalizzati all’inserimento o al reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori” svantaggiati, “alloggio sociale…, nonché ogni altra attività di carattere residenziale temporaneo diretta a soddisfare bisogni sociali, sanitari, culturali, formativi o lavorativi“, “accoglienza umanitaria ed integrazione sociale dei migranti“, “agricoltura sociale”, “attività sportive dilettantistiche”, “beneficenza e sostegno a distanza”, “promozione e tutela dei diritti umani, civili, sociali e politici”, “protezione civile” e così via.
È la sussidiarietà, bellezza, cioè quel principio per cui – detto in modo un po’ pedestre – compito principale dello Stato è sostenere, economicamente e con disposizioni ad hoc, altre entità “sociali” (in particolare quelle non profit), astenendosi dall’intervenire in tutti quei settori in cui queste entità “sociali” possano soddisfare determinati bisogni meglio dello Stato stesso. Il tutto, ovviamente, per il trito motivo secondo cui, in questo modo, si guadagnerebbe in efficienza, si ridurrebbero gli sprechi, l’assistenzialismo, la burocrazia, e così di seguito secondo i più vieti stereotipi da libro di Stella e Rizzo. Nella settimana della lotta ai vitalizi, primo passo per il ricalcolo retroattivo delle pensioni retributive di tutti gli italiani, pare assai appropriato.
Il cerchio si chiude. L’aggressivo attacco al welfare State snatura anche il volontariato, che da meritoria opera connotata dalla gratuità e dalla spontaneità, che non ritiene si sostituirsi alla P.a., ma di affiancarla in situazioni di particolare bisogno, finisce per divenire una delle proteiformi incarnazioni del mito dello Stato minimo, oltre che veicolo per l’ennesimo tentativo di deflazione salariale. Il tutto, ovviamente, con i soldi del cittadino, presente o passato (come quelli delle fondazioni bancarie, tirate in ballo con norma a dir poco incostituzionale). D’altronde, è noto che tutti i liberisti de noartri sono inamovibili dipendenti pubblici.