
Sono tornati in Italia, dopo 25 anni, i Guns N’ Roses. In questi casi il rischio di una regressione proustiana è assai alto; ma, per l’appunto, perché il rischio di concretizzi seriamente è necessario in primo luogo essere Proust, cioè unire ad una infinita intelligenza psicologica e letteraria un io adolescenziale mai risolto. Caso assai raro, se non unico (molti non crescono, ma solo uno ha scritto la Recherche).
A Torino, quel 27 giugno 1992, i presenti ignoravano molte cose. Che lo stesso stadio “Delle Alpi” in cui si trovavano, uno dei monumenti all’idiozia costruttiva di “Italia 90”, pochi anni dopo non sarebbe neppure più esistito (un bel contrasto con un Autodromo vetusto di anni e gloria, come quello di Imola); che dopo dieci anni avrebbero avuto in tasca una moneta diversa, e ne avrebbero avuta molta meno; che le elezioni di un paio di mesi prima, che avevano premiato uno scricchiolante quadripartito, sarebbero state le ultime della Democrazia Cristiana, ridotta ormai al di sotto del 30% dei consensi e in procinto di essere liquidata dai suoi stessi dirigenti, più per pusillanimità – forse – che per opportunismo; che l’inchiesta milanese poi passata alla storia come “Mani Pulite” stava per distruggere la Prima Repubblica e tenere a battesimo, con un evidente salto nel buio, la Seconda (nell’autunno il risultato elettorale della Lega sarà clamoroso); che il giorno dopo avrebbe giurato un governo composto da persone capaci di prelevare nottetempo, come ladri comuni, soldi dai conti correnti. Che l’Italia stava cambiando inesorabilmente. E in peggio.
Alcune cose, invece, non cambiano mai. Il plettro di Duff McKagan che apre il concerto con “It’s so easy” e la band tutta che lo chiude con “Paradise City”, Axl con la maglietta a quadrettoni in vita e quella voce che sembra uscire da chissà quali profondità infernali, Slash che continua a sbagliare il tema de “Il Padrino” ma in fondo – lui che da solo tiene insieme un intero concerto, ricamando assoli fra una performance e l’altra – se lo può permettere. Poi ci sono le canzoni: ancora attualissime, suonate e cantate (nonostante gli anni ed i chili in più di Axl) molto bene e – fortunamente – con approccio piuttosto didascalico; quasi un sogno per chi è abituato a cantautori italiani che, appena pubblicano un successo, smettono di suonarlo dal vivo, o al massimo lo accompagnano ad un arrangiamento dodecafonico (alla De Gregori, giusto per non fare nomi). C’è un palco sobrio e grandioso insieme, da leggende del rock com’è giusto – e dunque con fuochi d’artificio, fiammate, coriandoli – ma senza le esagerazioni un po’ grette di altri gruppi storici degli anni Novanta (materia in cui eccellevano, per esempio, gli U2).
Alla Rivazza, i novantamila che dopo un pomeriggio di Solleone impazziscono di gioia nelle tre ore di splendido concerto (sulla cui durata e perfezione tecnica, diciamo la verità, nessuno avrebbe scommesso un Euro) non sono più solo ventenni, ma sono per la maggior parte padri e madri di famiglia che vedono i più giovani abbigliarsi e comportarsi come facevano loro un quarto di secolo prima, e non sanno se sorriderne nostalgici oppure preoccuparsene, pensando ai propri bambini, a casa, che presto cresceranno e faranno iniziare nuovamente tutto, daccapo. Il tempo passa da entrambi i lati del backstage.
Intanto il concerto si avvia verso il termine. I Guns N’ Roses escono, poi rientrano. E tutti sanno già che stanno per arrivare “Don’t cry” e “Paradise City”. Nessuno invece immagina di sentire una versione meravigliosa, rispettosa e nuova insieme, di “Black Hole Sun”. Chris Cornell quel 27 giugno c’era, e fu mostruoso. Anche per questo, oggi, sentiamo ancora di più la sua mancanza.